LA MIA GUERRA
Al Borgo Strada di Brisighella (RA).
Sommario
1° – 27 settembre 1944. Bombardamento aereo al borgo Strada.
2° – 3 ottobre 1944. Un tragico anomalo bombardamento?
3° – Autunno 1944. Cannoneggiamento notturno.
4° – Ottobre 1944. SFUGGITO ALLA MORTE: “Divertimento” di soldati tedeschi ideatori di un tiro a segno su bersagli umani.
5° – Ottobre/novembre 1944. Truppe tedesche in ritirata con distruzione dei ponti.
6° – Fine novembre/inizio dicembre 1944. Nella terra di nessuno.
7° – Dal primo ottobre 1944 al gennaio 1945. “Giochi” di guerra.
8° – Un mio ibisco.
Premessa.
Nelle pagine sottostanti sono raccontati alcuni avvenimenti bellici accaduti nel 1944, vissuti e sofferti dal sottoscritto all’età di dieci anni.
Nel loro complesso si tratta di eventi drammatici, alcuni addirittura tragici, avvenuti nel Comune di Brisighella, precisamente nel villaggio o borgo Strada parrocchia della Pieve di San Giovanni Battista in Ottavo, comunemente detta Pieve del Thò.
Sono brevi, emozionanti tasselli di storia vissuta, ricavati da appunti originali e da penose reminiscenze affidate alla carta nei giovanili anni del Liceo per sottrarle all’oltraggio del tempo e agli smarrimenti della “memoria”, facoltà piuttosto avara nel ricordare date e nomi. Facoltà invece straordinariamente generosa come “memoria visiva” che mi ha permesso di ‘vedere’ e ricordare con gli occhi e l’emotività di allora anche i particolari più minuziosi. Annotazioni circostanziate chiaramente riscontrabili in pagine piuttosto scarse di nomi e di date, scritte per uso familiare, forse non del tutto conformi per struttura e contenuto a ufficiali pubblicazioni.
Nutro quindi speranza che questi dolorosi accadimenti (che ancora tormentano le mie notti con scenari di morte) siano già stati raccontati in altre occasioni e che le persone tragicamente coinvolte siano state ricordate e celebrate nelle ricorrenze annuali da scrittori e storici di professione.
In caso contrario offro il mio contributo seppur modesto affinché il tragico destino di queste innocenti creature rimanga vivo, scolpito nel cuore e nella mente di coloro che mai le hanno conosciute.
1° • 27 Settembre 1944. Bombardamento aereo alla Strada di Brisighella.
Temibili e temute erano le fortezze volanti degli Alleati, cariche di bombe di grosso calibro che passavano rombando sulle nostre teste nei cieli sereni di quell’interminabile e tragico autunno 1944.
Causa non secondaria di preoccupazione e di pericolo erano pure la “Cicogna” e “Pippo”, epiteti popolari di due piccoli aerei solitari, dall’aspetto innocuo, che spuntavano quasi per caso quando meno te lo aspettavi, volando apparentemente senza meta.
Le Cicogne (in realtà si trattava di agili caccia bombardieri) erano dei velivoli da ricognizione che spuntavano di giorno alti nel cielo per osservare luoghi e persone; attenti scrutatori di obiettivi da bombardare, di movimenti insoliti da segnalare, di persone da bersagliare. Con leggerezza e rapidità miravano, colpivano e scomparivano. Equipaggiati per poter agire velocemente, piombavano come falchi bombardando o mitragliando tutte le strutture e tutti i movimenti sospetti.
Pippo era il tormentone di ogni notte e si faceva annunciare da un caratteristico rombo leggero che metteva in agitazione per l’imprevedibilità delle sue manovre. Munito di bombe leggere e di spezzoni, fornito di mitragliatrici per rapidi interventi su obiettivi prestabiliti o individuati sul momento, trovava indispensabile aiuto alle sue imprese notturne nel lancio dei bengala, oggetti luminosissimi che scendevano con lentezza esasperante, appesi a piccoli paracadute; illuminata a giorno la zona, potevano rilevare anche i più piccoli movimenti.
Era una Cicogna la sagoma che scorgemmo, quasi per caso, una mattina di una giornata luminosissima e quieta per l’assenza di traffico stradale.
Zia Fena ed io ci trovavamo sul fondo del rio Strada, borgata di Brisighella, stretti fra il ponte della ferrovia e quello della “Strada maestra” (come si chiamava allora la principale strada della vallata), per attingere acqua da una vecchia, riattivata sorgente trasformata in provvidenziale fontanella, in mancanza della funzionalità dell’acquedotto comunale.
In quel luogo, ben ripulito dagli arbusti e dal materiale di scarico, vi si accedeva da un ripido sentiero che scendeva zigzagando a piccoli, secchi tornanti.
Il secchio era quasi pieno quando sentimmo un ronzio sospetto e scorgemmo un piccolo apparecchio solitario e lento che stava attraversando il triangolo di cielo sovrastante le nostre teste, in direzione del monte di Rontana.
Ci guardammo presi da inquietudine, consapevoli del pericolo incombente, intrappolati come eravamo tra due ponti di importanza strategica per ogni tipo di trasporto civile e militare tra Firenze-Faenza.
Lo sapevamo tutti che i ponti erano obiettivi ghiotti per gli Alleati, anche se quell’aereo, ormai oltre Rontana, sembrava diretto altrove.
«Andiamo, sbrigati, ritorniamo» disse zia Fena con voce bassissima venata di ansia, come parlasse a sé stessa. Poi aggiunse con tono più vigoroso «Corri tu che hai le gambe buone».
Col secchio in mano, risalimmo insieme, in un faticoso silenzio, il tortuoso sentiero, attraversammo con passo celere il ponte della strada maestra del tutto deserta, giusto in tempo per vedere il calzolaio del borgo (da tutti conosciuto come Franz) sbucare dal vicolo di casa Samorini, attraversare la strada e avviarsi verso casa: volò quasi sui pochi gradini dell’ingresso per scomparire oltre la porta.
In quell’istante sopra quella casa apparve in tutta la sua grandezza il piccolo aereo di prima.
Si stava abbassando rapidamente sulla verticale della ferrovia in direzione di Brisighella, accompagnato da alcune esplosioni di bombe sganciate e cadute a lato dell’antica Pieve del Thò.
Mentre Fena scantonava rapidamente oltre il vicolo Samorini, mi fermai sui gradini de Salarôl, una caratteristica casetta a forma di ‘saliera lignea’ di Gigia Neri, distrutta settimane dopo, dall’abbattimento dell’attiguo ponte da parte dei tedeschi.
Posato il secchio vicino alla porta d’ingresso, fissai per un attimo l’aeroplano ormai di fronte a me pensando di vedere il pilota…
Vidi invece una “cosa” scura, oblunga, staccarsi dal ventre del velivolo e puntare al vicinissimo ponte della ferrovia.
Di scatto mi sentii come trascinato nell’ingresso di casa Samorini, sbatacchiato dallo spostamento d’aria, stordito dall’assordante fragore, avvolto in una nuvola di vorticosa polvere, acre e irrespirabile, mentre scaglie di intonaco e schegge di vetro di una lunetta mi rovinavano addosso.
Uscii a precipizio, riafferrai – non so perché – il secchio svuotato dalla potenza dello scoppio, e corsi verso casa.
Nell’aria si mescolavano invocazioni e urla di paura.
Voci soffocate si cercavano a vicenda.
Nella nebbia granulosa qualcuno gridò «Dov’è caduta?»
La bomba era scoppiata pochi metri prima del ponte, sul muretto della ferrovia fiancheggiante l’aia di casa Monduzzi, flagellando di schegge il palazzo di fronte e un rustico ‘loggetto’ di pietre e legno.
In quel terrazzino un uomo sceso velocemente dalla sua vigna era appena entrato; lì giaceva il suo giovane corpo crivellato da schegge mortali.
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In casa Bubani, famiglia di conosciuti calzolai ricercati in tutta la zona, si trovava soltanto il babbo Sante a letto per la malattia che lo porterà alla morte pochi mesi dopo, e sua moglie Angiolina.
Il vicino, violentissimo scoppio lo aveva sbalzato dal letto in un rovinio di vetri, di suppellettili frantumate e porte scardinate. Confuso, intontito e come presago farfugliò «Dov’è Franz, dov’è?».
«Sta’ calmo, stai tranquillo per questo» rispose la donna con voce rauca accorata dallo sfacelo di quella camera, «Lo sai pure, Franz è su, nella vigna, con tutti gli altri».
«Meno male!» biascicò a fatica Sante: e vacillante si avviò verso il terrazzino.
Erano le 11,30 del 27 settembre 1944.
Francesco Bubani aveva 31 anni.
Nella vigna lo aspettavano la moglie Fernanda e due figli in tenerissima età: Ate e Filiberto.
2° • 3 ottobre 1944. Tragico bombardamento anomalo?
Appena sei giorni dopo il bombardamento al ponte della ferrovia stormi di aerei invasero il cielo del borgo Strada, tanto serrati da oscurare quasi tutto l’azzurro del cielo.
Sorvolando distese di campi a destra e a sinistra del fiume Lamone, avanzavano lentamente verso nord, forse appesantiti da bombe destinate a città italiane o a bersagli tedeschi del nord Italia. Spuntavano dietro il monte della Bicocca per scomparire oltre il monte di Rontana: la solita rotta, una rotta di distruzione e di morte.
All’improvviso il fragore dei motori fu eguagliato poi superato da una serie di esplosioni inaspettate e laceranti per intensità e durata.
Nella densa polvere e nell’irreale calma che seguì lo scoppio dell’ultima bomba caduta piuttosto vicina a noi, nessuno pensò a possibili vittime in aperta campagna, mentre varie donne, uscite di casa, si rallegravano dello scampato pericolo.
Purtroppo un crudele destino aveva preteso tre vittime dovute a un bombardamento ingiustificato e ingiustificabile per l’assenza totale di obiettivi militari o civili in quella zona.
Una serie di buche nerastre segnava un lungo tracciato campestre che iniziava dal podere casa Lamone sulla destra del fiume omonimo, per terminare alla sua sinistra, ad appena cento metri dalle nostre case: non si saprà mai perché!
Lungo quel tragico, innocuo percorso caddero vittime tre persone laboriose e innocenti, tranquillamente impegnate in attività agricole. Notissime in paese, suscitarono incredulità e compianto in tutta la comunità parrocchiale. Maria Spada Casadio del podere Lamone e Giacomo Babini del Mulino Carera, caddero fulminati sotto i filari il 3 ottobre 1944.
Lina Verità, del podere Carera, spirò il giorno dopo all’ospedale civile di Brisighella.
3° • Autunno 1944. Cannoneggiamento notturno.
Nel doloroso autunno del 1944 nessuno del borgo Strada avrebbe immaginato che quelle insignificanti abitazioni sarebbero state oggetto di bombardamenti o cannoneggiamenti. Quel nucleo di vecchie case nel suo insieme era veramente troppo tranquillo e sguarnito per suscitare un qualsiasi sospetto di zona bellica.
Sarebbe stato più verosimile ipotizzare che obiettivi suscettibili di un qualche intervento distruttivo da parte degli Alleati, sarebbero stati la ferrovia Faenza–Firenze e la strada “maestra” vicina e parallela alla ferrovia stessa: due importanti percorsi strategici ancora utilizzabili che, purtroppo, abbracciavano come una morsa l’intero villaggio.
Questa forma topografica potrebbe spiegare, in un certo senso, la bordata di granate che si rovesciò in una notte autunnale sul nostro stretto borgo, cogliendo di sorpresa coloro che ancora lo abitavano: persone come si seppe, già sistemate alla meno peggio al piano terra o in cantine, immobili e terrorizzate dagli scoppi che sempre più si avvicinavano. Le esplosioni, iniziate nel campo del contadino Primo Neri confinante col sentiero che sale al podere Valloni e al monte di Rontana, raggiunsero in pochi secondi la casa di Gigì de vlut (di velluto) affiancata alla mia: un tratto di circa centocinquanta metri, quasi la lunghezza del villaggio appena sfiorato.
Sbagliato l’eventuale il bersaglio (ferrovia, strada maestra o case), l’errata manovra di lancio si era esaurita su un terreno agricolo distante una cinquantina di metri dalle case abitate.
In casa nostra eravamo tutti accampati sul pavimento di terra battuta della cantina. Personalmente vivevo in un terrore continuo perché lo scoppio delle granate e delle bombe mi terrificava, mi paralizzava. Ricordo che fremevo e mi premevo le dita nelle orecchie con sempre maggior forza man mano che gli scoppi si avvicinavano. L’ultima deflagrazione assordante a pochi metri dalla casa, fece sobbalzare ogni cosa. Il mattino dopo trovammo nelle camere al primo piano molte schegge che avevano perforato muri e mobili. Schegge che qualcuno, desideroso di dimenticare, gettò via negli anni successivi.
4° • Ottobre 1944. “Esercitazione rilassante” di soldati tedeschi: tiro a segno su bersagli umani.
In un pomeriggio d’autunno nel cortiletto di casa nostra stavo aiutando il mio babbo a segare rami secchi posti su un cavalletto. Un lavoro urgente per fare fronte ad un inverno che si prevedeva nevoso e rigido come in passato. Un’abbondante raccolta di tronchetti già accatastati a ridosso di una parete della casa ci faceva ben sperare.
All’improvviso dalla zona di Puriva di mezzo, podere collinare della Pieve del Thò, ci raggiunse l’eco attutita di raffiche di di mitraglia seguite all’istante da scariche di colpi sul muro vicino, poche spanne sopra le nostre teste. Non capii al momento cosa stesse accadendo. Lessi però un evidente spavento sul volto di mio padre il quale, obbligatomi a terra di scatto, strisciando mi portò all’interno della cantina, riparati da sventagliate successive.
Seduti sul pavimento di terra battuta, ci trattenemmo a lungo sconvolti e muti, ignari della causa di quella strana sparatoria. Mio babbo era visibilmente preoccupato.
Sempre timorosi, solo più tardi uscimmo con cautela nel cortile. I fori sul muro e le schegge di intonaco staccate parlavano chiaramente del pericolo corso (come dimostrala la foto allegata).
La sera a cena, tutti noi di casa avanzammo le ipotesi più strane, del tutto discordanti con l’allucinante realtà scoperta per caso il giorno dopo.
Fu mio padre a parlarcene. Quasi per caso aveva incrociato i contadini che il giorno prima si trovavano per lavoro nei pressi Puriva di mezzo. Scambiate poche parole di commento seppe quindi da loro che gli autori di quell’agguato erano stati soldati tedeschi dislocati nelle case coloniche del luogo. Loro piuttosto alticci e affaticati dal ripido sentiero che da Puriva di sotto sale a Puriva di mezzo, si erano fermati a riposare poco lontano dai campagnoli al lavoro. Furono due militari particolarmente loquaci, ad esplorare il borgo sottostante col cannocchiale del fucile. All’improvviso qualcosa attirò la loro attenzione perché, tra sghignazzi e frasi incomprensibili, cominciarono a mitragliare.
I contadini presenti, per qualche minuto appoggiati ai manici delle zappe, al momento non potevano certo immaginare che i due militari si divertivano a sparare su bersagli umani in un improvvisato luna park.
Cortile di casa Filippo Briccoli.
Nei cerchietti rossi cinque fori della mitragliata di un soldato tedesco
impegnato in un divertente tiro al bersaglio su padre e figlio.
5° • Ottobre/novembre 1944. Truppe tedesche in ritirata: distruzione dei ponti.
I soldati tedeschi scendevano a piedi dall’Appennino tosco-romagnolo laceri, sporchi, sfiniti. Gli scarponi e le divise stinte e sformate mostravano la fatica e la polvere sollevata da una infinita serie di chilometri di strada sconnessa. Avanzavano in file vacillanti alternate o affiancate da automezzi che formavano scomposte colonne dirette a una precisa destinazione. Avanzavano per inerzia senza guardarsi intorno, gli occhi spenti fissi nel nulla. La strada era tutta loro per l’assenza totale di traffico. Nessuno adulto si esponeva per osservarli. Qualcuno di noi, intirizzito dal freddo in maglietta di cotone e in calzoncini corti, li guardava in un silenzio curioso. Non era una visione. Mai avevamo visto tanti soldati insieme che camminavano come automi a righe scomposte in un torpore rotto solo dai passi stanchi.
Nell’autunno del 1944 attraversarono così a più riprese le nostre terre e sfiorarono le nostre case gli ingloriosi, sfasciati resti dell’esercito tedesco in ritirata che, scendendo dall’Appennino toscano, si avviava senza più speranze verso più familiari terre nordiche.
Rimasero comunque alcuni militari specializzati dislocati nei pressi delle zone ormai raggiunte dall’esercito alleato. Nel Villaggio Strada due genieri (svelti e puliti) si insediarono in casa Monduzzi con l’incarico di eseguire l’operazione finale consistente nell’ostacolare l’avanzata degli Alleati con la previa distruzione dei ponti delle strade e delle ferrovie.
Passati subito all’installazione delle cariche esplosive sotto le arcate dei nostri due ponti affiancati, gli specialisti dell’operazione comunicarono a tutto l’abitato il giorno e l’ora dell’esplosione con l’ordine di abbandonare le case vicine ai ponti e di tenere le finestre spalancate. Inoltre, per procurare il minor danno possibile a due abitazioni attaccate al ponte della strada maestra, dissero di avere sincronizzato le due cariche in modo da esplodere simultaneamente soffocando a vicenda gli effetti dell’esplosione.
Incuriosito da un avvenimento per me inimmaginabile, prima dello scoppio mi sistemai in un alto vigneto dove si potava assistere con sicurezza alla deflagrazione.
All’ora prestabilita un boato potente sollevò una densa nube di polvere biancastra che in pochi secondi lasciò intravedere, al di là dei monconi del ponte della strada, l’integrità del ponte ferroviario.
Purtroppo un contatto nell’impianto di collegamento delle micce non aveva risposto ai comandi, combinando il disastro previsto: il crollo de Salarôl, ossia la casa di Gigia Neri e i gravi danni alla casa del figlio Primo. La distruzione del ponte della ferrovia fu poi accelerata e ripetuta seduta stante, permettendo ai due guastatori una immediata, prudente ritirata.
In quei giorni si venne a sapere che anche a Brisighella sarebbe saltata la curva della strada che, sfiorando la base della Rocca, porta al Monticino e all’altra vallata. Anche questo orario, diffuso in anticipo, mi permise di sentire lo scoppio e vedere dalla mia finestra, a due chilometri di distanza, la nuvola di fumo che s’innalzò.
6° • Fine novembre/inizio dicembre 1944. “Terra di nessuno”.
Una sera piuttosto tetra, ingrigita da una densa nebbia che tutto avvolgeva e nascondeva, accolse i nostri passi incerti e guardinghi diretti a un solido sotterraneo di una antica dimora abbastanza vicina, speranzosi di passarvi una notte più sicura.
Carichi di coperte, avanzavamo a tentoni, mio fratello Alberto ed io, lungo uno stretto viottolo che portava alla strada principale, ormai “terra di nessuno” da alcuni giorni, ossia da quando due guastatori tedeschi avevano abbandonato il villaggio dopo avere svolto il loro ultimo “compito”, la distruzione dei ponti: una ultima violenza che aveva talmente alterato i naturali profili ambientali da rendere irriconoscibile ogni punto di riferimento.
Ce ne rendemmo conto anche quella sera sul bordo della strada maestra attenti a qualche eventuale segno di pericolo proveniente dal fondo di un ruscello tra le scheletriche macerie del ponte che una pietosa nebbiosità faceva a malapena intravedere: a sinistra sporgevano i resti di una casa crollata, e Salarôl di Gigia Neri, sovrastanti l’annesso troncone del ponte proteso sinistramente nel vuoto. A destra i contorni spettrali delle nostre case buie e silenziose che svanivano nella notturna caligine.
Avanzammo lentamente con circospezione sul rumoroso pietrisco. In quella “terra di nessuno” risuonavano soltanto i nostri incerti passi oramai prossimi alla fontana comunale. Mio fratello Alberto, di sette anni maggiore di me, non parlava, ma mi stringeva forte una mano.
All’improvviso un rumore di sassi mal calpestati seguito da una farfugliata esclamazione proveniente dalle profonde macerie, ci bloccò impietriti. Seguì un silenzio profondo. Sempre carichi di coperte potevamo solo prestare attenzione a movimenti e spostamenti sempre più vicini che all’improvviso si materializzarono in direzione dei nostri petti: due fucili con baionette in canna sorretti da due figure irreali dal volto scuro parzialmente coperto che scrutavano noi e gli involti che portavamo.
Fu il militare più vicino a interrogare mio fratello con i caratteristici verbi all’infinito, per sapere cosa contenevano i nostri fardelli, da dove venivamo e dove andavamo. Dopo di che piuttosto rassicurati, allontanarono da noi baionette e fucili cominciando a parlare con maggiore confidenza. Erano due soldati alleati. Nel guardarsi attorno non sfuggì loro una fievole luce uscire dalle fessure di una porta vicina. Subito ci chiesero con sospetto chi abitava in quella casa.
Quindi imposero a mio fratello di bussare alla porta restando loro alquanto indietro con i fucili in quella direzione.
L’immediata accoglienza della famiglia di Claro Strocchi piacque molto ai due militari, ciprioti di nazionalità, i primi arrivati in perlustrazione nel nostro borgo. Ritornarono volentieri in quella casa in successive occasioni. Imparammo a conoscerli bene, anche se ora non ricordo più i loro nomi.
Pochi giorni dopo, il 5 dicembre 1944, le truppe alleate entrarono a Brisighella.
7° • Dal 1° ottobre 1944 al gennaio 1945. “Giochi” di guerra.
La prima occasione che mi permise, in tempo di guerra, di avventurarmi in un gioco nuovo quanto pericoloso (col senno di poi…) capitò imprevista il primo ottobre 1944: era una domenica mattina.
Mentre camminavo con mia zia Mina alla volta della Pieve Thò per la messa domenicale (la mia mamma era morta poco più di due anni prima) notai di lontano un ammasso di rottami a ridosso del sottopassaggio della ferrovia fronteggiante il sagrato dell’antica Pieve.
Al termine della funzione che sembrò non terminare mai, uscimmo in fretta e ci unimmo ad altre persone già sul posto.
Ciò che si presentò ai nostri occhi ci lasciò sbalorditi: una catasta di bombe di aereo sparse intorno tra i rottami di alcuni vagoni deragliati e scivolati lungo la scarpata. Pochi metri più in alto infatti, nella sede della ferrovia, si vedevano traversine divelte e binari contorti.
Alcuni uomini informati su tutto, stavano spiegando che i vagoni erano deragliati la notte successiva al bombardamento del 27 settembre, incursione mattiniera ancora vivissima nella memoria di tutti per la morte di Francesco Bubani.
Indifferente alle tante voci dai toni più o meno eccitati, mi avvicinai a quei grossi ordigni allungando una mano per toccarli. Girai poi lo sguardo per controllare se qualcuno poteva sgridarmi. Macché! Erano tutti troppo impegnati a commentare per interessarsi di me.
Ritornai a casa piuttosto contento del mio atto ‘coraggioso’. Dovevo raccontarlo ai miei amici.
Il pomeriggio fu dedicato interamente al nuovo passatempo. Senza controlli e controllori, il nostro gruppo si abbandonò a trovate ardite come ‘galoppare’ a cavalcioni bombe percosse con verghe, oppure saltare con impeto da un aggeggio all’altro per arrivare prima alla parte opposta.
Fu però l’arrivo degli Alleati con i genieri impegnati alla ricostruzione dei ponti e con un enorme equipaggiamento bellico destinato alla cacciata delle truppe tedesche inchiodate sul fiume Senio, ad accendere le fantasie di noi ragazzi sempre in mezzo ai soldati per scrutare ogni loro movimento e i marchingegni utilizzati. Non davamo fastidio compensati come eravamo da squisite tavolette di cioccolata e da leccornie mai viste.
Un acre odore che impregnava l’aria ci portò presto a contatto con un liquido sconosciuto da noi bambini, la benzina. Scorreva a fiumi, impregnando l’aria anche all’aperto. Ce n’era ovunque; arrivò dappertutto, perfino nelle case conservata in bottigliette. Diventò subito familiare a tutti per le tante potenzialità che aveva: accendeva camini e stufe, puliva, smacchiava e altre cose ancora. Serviva anche a noi ragazzini per fare esplodere barattoli usati e riempiti.
A me piaceva molto salire sugli automezzi militari impregnati tutti di quell’acre odore.
Giovanni, un simpatico giovane soldato polacco, spesso mi portava in giro sul suo veicolo militare, un rumoroso camion inzuppato di benzina: un Dodge piuttosto ammaccato e arrugginito.
Il breve ma felicissimo percorso di andata e ritorno a me riservato come passeggero, iniziava dal borgo Strada e terminava oltre Fognano, alla Castellina. Oltre non potevo andare perché zona di guerra, così mi diceva. Mi capitava spesso di osservare il polacco mentre faceva il pieno di benzina o il cambio dell’olio, due elementi per me nuovi ma divenuti rapidamente di grande uso anche domestico.
L’olio lubrificante, proprio quello dei motori, finì ben presto nelle case private utilizzato dagli adulti per rifornire le tavole di cucina dei necessari bicchieri di vetro introvabili in quel periodo.
Per realizzarli si versava un certo quantitativo di olio in scelte bottiglie vuote entro le quali si introduceva rapidamente un ferro arroventato. La reazione provocata tagliava di netto la bottiglia esattamente a livello dell’olio.
La cosa però più desiderata dagli adulti e dai ragazzini erano le polveri da sparo. Gli esemplari che imparammo subito a conoscere e a usare anche per divertimento, avevano la forma di spaghetti di varie lunghezze e di diverso calibro, pieni all’interno o vuoti come sottili tubolari. Infiammabilissimi com’erano, accendevano con facilità la legna più restia.
Ben presto ne furono invase tutte le case con abbondanza: bastava chiederli oppure… prenderne i mazzetti dai depositi militari accessibili a tutti.
Nelle case si tenevano a portata di mano vicino a stufe e camini….
Particolarmente bramosa di questa manna incendiaria era la contadina Angiolina, mia vicina di casa. Se ne accaparrò un grosso quantitativo accantonato in diversi angoli della cucina. Vari mazzetti finirono anche all’interno di una stufa economica inutilizzata.
Passato il fronte e partite le truppe alleate, forse in occasione di un felice evento familiare, la contadina trovò utilissimo l’uso di quella stufa per dare un buon aiuto al camino insufficiente a cuocere le numerose pietanze.
Il rumore del forte scoppiò richiamò immediatamente alcuni vicini allarmatissimi.
Il più evidente e grave danno che vedemmo fu un tratto di parete molto incrinato e un angolo del soffitto sconnesso. Invece piuttosto malconcia ma illesa risultò la nostra Angiolina, impegnata per fortuna in un riparato angolo della cucina.
Anche noi ragazzi eravamo abbastanza ‘affezionati’ a questi spaghetti, con preferenza per i tubolari i quali, una volta accesa una estremità, partivano come piccoli razzi frusciando e zigzagando nell’aria in tutte le direzioni, capaci di infilarsi in ogni dove, comprese finestre aperte e pagliai.
I pericoli erano certi e ma il gioco era troppo bello.
Come previsto, uno di noi ne fece le spese. Uno spaghetto dispettoso finì il suo convulso zigzagare sotto il braccio destro di Ofelio detto amichevolmente Pelèna, di qualche anno maggiore di me. Ne portò le difficili ustioni per molto tempo.
Molto peggio avrebbero potuto concludersi gli ultimi giochi inventati sfruttando altro pericoloso materiale bellico.
Ce li suggerirono i tanti barattoli di latta svuotati e sparsi in giro dai soldati. Molti di questi contenitori presentavano su una base cilindrica due fori dovuti al loro svuotamento, molto pratici per introdurre esplosivi tritati
Riempito l’involucro, vi si infilava come miccia un lungo spaghetto acceso. Lo scoppio era assicurato e potente con i seguenti risultati: le giunture del barattolo fondevano, la superficie cilindrica diventava un rettangolare mentre le due basi rotonde e taglienti venivano proiettate lontano passando in mezzo a noi disposti in circolo. Provammo anche delle varianti aumentando a caso il quantitativo dell’esplosivo.
Non contenti di queste bravate, gli amici più grandi osarono l’inosabile utilizzando, in mezzo a campi impantanati, barattoli di latta privati di una delle due basi, operazione che permetteva di introdurvi facilmente cartucce metalliche integre di varie lunghezze immerse in benzina accesa. I vicini depositi militari ne erano fornitissimi.
Immerse nella benzina in fiamme le cartucce metalliche disposte con i proiettili a raggiera verso l’alto, i ragazzi ‘esperti’ erano sicuri che le fiamme avrebbero fatto esplodere le capsule poste alla base dei bossoli. Ragionamento più che valido, direi. Non consideravano però che il tempo per fare consumare fino in fondo al barattolo la benzina sarebbe stato molto lungo. Ritardo benedetto che ci spingeva a dare calci di delusione ai barattoli e alle cartucce dopo brevi attese.
Lasciatemi ora concludere lamia storia militare ricordando gli strascichi impietosi della mia guerra infantile che riaffiorano periodicamente sotto forma di incubi. Sono riflussi onirici sconvolgenti che mi procurano sofferenti sensazioni di morte, sempre steso a terra in una pozza di sangue crivellato nel corpo da proiettili o schegge.
Un fiore per te.